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«Ma fai quel diavolo che vuoi! Purché tu ti tolga dai piedi!»

La sera stessa eravamo a cena io, mia moglie e lui alla pizzeria La Bella Napoli. Fuori pioveva, e lui era seduto di fronte a noi con l'impermeabile addosso; un po' cupo e non parlava.

Mia moglie: «Che c'hai? Mi sembri un po' giù!».

«Sì! Devo fare un sopralluogo. Mi accompagnate, per favore?»

Siamo usciti. Gli avevano rubato le quattro ruote della Millecento.

«Taxi!» ha urlato senza commentare.

Siamo arrivati alla casa della sua corteggiatrice.

«Venite, mi darete una mano a salire.»

Al secondo piano sulle scale c'era una finestrina ovale che dava sul salotto. È salito su una sedia di paglia prestata dal portiere, ha infilato la testa nella finestrella e noi lo abbiamo spinto dentro. Nel salotto c'erano il meccanico dentista e la ragazza. Erano seduti a quattro metri di distanza, muti come anatre tibetane. Sembravano molto depressi. Lui ha aperto la finestrella e ha urlato: «E finitela di dire coglionerie!».

Il meccanico dentista è scappato come una gallina faraona. Lui, infilato in quell'atroce cunicolo, ha cominciato a respirare a fatica: «Ma ti rendi conto di come cerchi di umiliarmi?».

«Ma smettila di prendermi in giro!» ha detto la ragazza con la testa bassa. «Mi hai fatto perdere l'occasione della mia vita!»

Lui soffriva di claustrofobia, è stato zitto un po' e poi ha cominciato a urlare: «Aiuto! Soffoco! Tiratemi fuori di qui!».

Sono corso giù dal portiere: «Chiami i pompieri, è urgente!».

Sono arrivati dopo quarantadue minuti, sinceramente terribili. Lui continuava a sibilare: «Non respiro! Non respiro! Fate presto!».

Prima era pallido, poi rosso, poi blu, poi blu notte. E alla fine, flebilmente, ha detto: «Dite ai miei genitori che gli ho voluto tanto bene!».

I pompieri gli hanno legato le caviglie con delle corde e hanno stappato il buco. Lui voleva dire qualcosa, ma quelli gli hanno messo impietosamente una maschera per respirare. Quando è tornato a casa si è accorto che aveva l'impermeabile completamente rovinato, e che aveva perso il portafogli e la scarpa sinistra. La ragazza non si è mai sposata e il meccanico, quattro anni dopo, è stato arrestato perché si spacciava per dentista.

Purtroppo, io non avevo il gigantesco coraggio di chiedere alla ragazza dagli occhi meravigliosi di poterla accompagnare. Allora usavo una tecnica demenziale di mia invenzione: uscivo pochi minuti prima della campana al trotto più disperato, giù per una scala di quattrocento gradini, poi al galoppo verso piazza Corvetto e poi, con fare casuale e indifferente, cominciavo a tornare indietro lentamente per andarle incontro sul Ponte Monumentale, dove sapevo che sarebbe passata.

Era una giornata di sole, sono sul ponte.

Eccola là in fondo! Teneva i libri sotto il braccio, legati con un elastico verde. Era con un'amica e sorridevano. Mi sono fermato. Una vecchia passandomi vicino mi ha detto: «Che c'è giovanotto? Sta male?».

Non ho risposto e ho cominciato ad avanzare lentissimo, a testa bassa, sul marciapiede opposto. «Ecco! Adesso mi vede! Ecco! Adesso mi vede e mi chiama! Ecco! Adesso mi ferma! Ecco adesso… proprio adesso… ora, forse… Niente! Non mi ha visto!»

Quando lei era lontana mi sono appoggiato a un muretto. La vecchia mi ha raggiunto: «Giovanotto, dica la verità, posso fare qualcosa?».

«Mi lasci in pace!» ho ringhiato. «O chiamo i Reali Carabinieri!»

Due giorni dopo il tempo era nuvoloso. All'una e dieci ero sul ponte. La vecchia fortunatamente non c'era.

Ed eccola! Aveva un impermeabile leggero color carta da zucchero, i libri sotto il braccio legati con quell'indimenticabile elastico verde. Io ho cominciato ad avanzare, sempre con la faccia a terra. Lei mi vede: «Ehi!» e attraversa la strada.

Quando è vicina io dico rabbioso: «Che vuoi?».

«Niente. Come mai da queste parti?»

«È perché sono in una situazione drammatica, sono caduto dal tram dopo aver accoltellato il controllore.»

Lei ha sorriso e mi ha messo le mani sulle spalle: «Ma tu, devi dirmi qualcosa?».

Io ero inferocito.

«Ma di chi stiamo parlando? Scusami, devo andare via perché ho dei problemi gravissimi! Non ho tempo da perdere!», e me ne sono andato.

E lei, perplessa: «Ciao! Ci vediamo domani!».

Sono arrivato al muretto e mi sono appoggiato. Avevo voglia di farmi garrotare da due cavalli dell'inquisizione spagnola. Di spalle è arrivata la vecchia con il marito e gli ha detto a bassa voce: «È lui! Poveretto. È quel giovane malato di mente di cui ti ho parlato».

Tra le ragazze bruttine di quegli anni c'era, al liceo, Leila. Era veramente un mostro. Gobba, alta un metro e cinque. Non potendo vivere in prima persona delle storie d'amore le viveva di riflesso: portava messaggi, riferiva e raccoglieva confidenze, ma, soprattutto, faceva la postina di lettere d'amore. La dichiarazione scritta, che era l'ultima spiaggia.

Era quasi la fine di giugno, ero fuori tempo massimo. Sono seduto sul muretto della scuola, la gobba si avvicina e mi dice decisa: «Nella nostra situazione, non ci rimane che la lettera!».

«Quale lettera? Di cosa stiamo parlando?»

«Hai capito benissimo! Prendi un foglio e scrivi semplicemente: cara tal dei tali, io credo di essere innamorato di te. Non posso più vivere… eccetera, eccetera, aspetto una risposta. Mi dai la lettera, io gliela porto e domani pomeriggio sapremo il nostro destino.» Si è alzata: «Mi raccomando!». E a cento metri si è voltata e ha urlacchiato: «Sta' a sentire: stringato, eh!?! Non voglio quelle cose stiracchiate da logorroico. Le lettere troppo lunghe» ha aggiunto con tono professionale, «non le leggono! Stringato, mi raccomando!», e si è allontanata. A quasi ottocento metri si è voltata e mi è arrivata la sua voce flebile per la distanza: «Stringatooo!».

Sono tornato a casa, mi chiudo nella mia stanza, apro la finestra sul mare e penso: «Stringato. Sarò proprio telegrafico». E per trovare un briciolo di ispirazione, purtroppo, ho messo la nostra canzone.

Una catastrofe: trentadue pagine!

C'era dentro un po' di tutto… quel raggio di sole del primo giorno che filtrandole attraverso i capelli dorati le batteva sul labbro… e poi quella volta e poi quell'altra… e di come volavo con lei sopra le onde… insomma, una lunghezza devastante. E poi, finalmente, con tono più sobrio concludo: «Perché credo, e dico credo, perché è la prima volta che mi succede, di essere veramente innamorato di te.

Io ti amo».

Ho spolverato la lettera con del borotalco profumato Roberts, e in serata ho portato il malloppo alla gobba.

Lei ha preso il pacco, mi ha guardato disperata e poi ha detto: «Vabbe'! Speriamo bene».

L'indomani mattina era il terzultimo giorno di scuola, sapevano tutti della lettera, i miei compagni erano tutti in trepida attesa. Alcuni erano in piedi addirittura sui banchi. Tutti sorridenti, tutti carini da morire. Tutti in attesa di un magico evento, sentirmi dire pubblicamente: «Ti amo».

E lei avrebbe risposto: «Anch'io».

Nella notte avevo dormito solo nove minuti.

Ero in corridoio, erano già entrati tutti. Era una mattinata piena di luce, rallegrata da quel clima di magica attesa. Ero fuori dalla porta, respiravo molto male, e pensavo: «Quasi quasi, oggi non entro. Anzi, sto via un mese. No, meglio, vado via per sempre, vado a vivere nell'Angola portoghese».

La gobba era una professionista autentica, è passata e mi ha spinto dentro. Sono entrato barcollando e tutti hanno applaudito. Io ero stordito come se avessi preso una manciata di quelle pillole da discoteca.

Ed eccola! Lei era di fronte a me. Mi ha fatto il sorriso più bello di tutta la mia vita. Si è toccata il grembiule nero all'altezza del cuore e ha detto semplicemente: «Ho la lettera».