Come nel caso di John e di Marjorie, le analisi del sangue che ordinò immediatamente rivelarono una reazione cellulare minima alla polmonite bilaterale in corso, confermata da una schermografia.
Dati i problemi avuti con Kelley, questa volta David non richiese un consulto ufficiale, ma telefonò al dottor Mieslich che non fu di grande aiuto, non potendo vedere la paziente. Gli disse soltanto che l’ultima volta che aveva visitato Mary Ann non aveva trovato tracce evidenti di cancro alle ovaie, ma che si aspettava una recidiva poiché prima del trattamento chemioterapico la malattia si era già estesa.
In quel momento un’infermiera gli gridò che Mary Ann aveva le convulsioni e David corse subito da lei. La trovò in preda a un attacco epilettico, che riuscì a controllare somministrandole immediatamente dei farmaci per via endovenosa, utilizzando l’ago che per fortuna era rimasto in sede. Finito l’attacco, però, Mary Ann rimase in coma.
David chiamò al telefono il neurologo del CMV, il dottor Alan Prichard, il quale gli consigliò di ordinare una TAC o una risonanza magnetica nucleare, a seconda di quale macchina fosse subito disponibile, e promise di passare a vedere la paziente appena possibile.
Mandata Mary Ann in radiologia, David telefonò nuovamente all’oncologo, spiegandogli che cosa era accaduto e richiese un consulto formale, poi chiamò anche lo specialista delle malattie infettive, il dottor Hasselbaum, come aveva fatto per Marjorie e John. Era preoccupato per la reazione che avrebbe avuto Kelley, ma sentiva di non avere scelta.
Non appena dall’Imaging Center lo avvisarono che erano pronti i risultati della risonanza magnetica nucleare, corse a prenderne visione e per strada incontrò il neurologo che si unì a lui. Insieme al dottor Cantor osservarono in silenzio le immagini che venivano loro fornite a mano a mano che erano pronte. Tutti si stupirono di non trovare segni di metastasi.
«A questo punto, non saprei come mai abbia avuto un attacco epilettico», ammise il dottor Prichard. «Potrebbe esserci stato un piccolissimo embolo, ma è solo una supposizione.»
Anche l’oncologo rimase sorpreso del risultato della risonanza magnetica e suggerì l’ipotesi che la lesione fosse troppo piccola per essere rilevata.
«Questa macchina ha una risoluzione eccezionale», osservò il dottor Cantor. «Se il tumore è troppo piccolo per essere rilevato, allora le probabilità che abbia causato un attacco epilettico sono ancora meno.»
Lo specialista in malattie infettive confermò la diagnosi di polmonite e dimostrò che il batterio responsabile era di tipo gram-negativo, simile ma non identico a quello che aveva causato la polmonite di Marjorie e di John Tarlow. Secondo lui, Mary Ann era già sotto choc settico.
David spedì la sua paziente all’unità di terapia intensiva, dove continuò la somministrazione di antibiotici, su consiglio dello specialista in malattie infettive, e dove un anestesista le applicò il respiratore.
Assicuratosi che per Mary Ann si stava facendo tutto il possibile, David ritornò in corsia per controllare le condizioni di Jonathan. Lo trovò benissimo.
«C’è solo una cosa che non va», gli disse il suo paziente. «Questo letto fa come gli pare. Certe volte quando pigio il tasto non succede niente, non si alzano né testa i piedi.»
«Ci penso io», lo rassicurò David, lieto di dover preoccuparsi per un problema di quel tipo, e riferì subito la lamentela alla capo infermiera del turno di notte, Dora Maxfield.
«Questi letti sono vecchi e si rompono un po’ troppo spesso», gli disse lei. «Grazie per avermelo detto. Avverto subito l’ufficio tecnico.»
La pedalata fino a casa immerse David nel freddo che era calato poco dopo il tramonto, ma lo sopportò bene, trovandolo persino terapeutico.
A casa trovò una gran baraonda. Nikki, Caroline e Arni s’inseguivano a vicenda per le stanze del pianterreno, mentre Rusty inseguiva equamente tutti quanti. Nell’udire le risate cristalline dei bambini, David dimenticò per qualche minuto l’ospedale.
Quando venne il momento di riaccompagnare a casa i due compagni della figlia, portò con sé anche lei, per avere l’opportunità di chiacchierare un po’ insieme durante il viaggio di ritorno.
Parlarono della scuola e del nuovo maestro, poi David le domandò se pensava molto al cadavere trovato in cantina.
«Un po’», rispose Nikki.
«Che effetto ti fa?»
«Che non ho più voglia di scendere là sotto.»
«Ci credo bene. Anch’io, sai, quando ieri sera sono sceso a prendere la legna, avevo paura.»
«Davvero?»
«Già. Però ho escogitato un piano che potrebbe essere divertente e ci sarebbe d’aiuto. T’interessa?»
«Sì!» esclamò Nikki, entusiasta. «Quale?»
«Non lo devi dire a nessuno.»
«Va bene!»
David spiegò il piano alla figlia, chiedendole che cosa ne pensasse.
«Direi che è buono.»
«Ricordati che è un segreto.»
Nikki poggiò una mano sul cuore in segno di giuramento.
Appena arrivato a casa, David telefonò all’unità di terapia intensiva per aggiornarsi sulle condizioni di Mary Ann, e l’infermiera che rispose lo informò che non erano cambiate, descrivendogli le sue condizioni generali, oltre a riferirgli i risultati di nuove analisi e il tracciato del respiratore. Colpito dalla professionalità dell’infermiera, David si tranquillizzò, dicendosi che Mary Ann era curata al meglio.
Angela servì la cena in sala da pranzo, evitando intenzionalmente di usare il tavolo della cucina, e rallegrò l’ambiente con un bel fuoco e delle candele. Finito di mangiare, mentre Nikki guardava la televisione per la mezz’ora che le era consentita, i suoi genitori rimasero seduti pigramente a tavola.
«Non ti interessa sapere come ho passato il pomeriggio?» domandò Angela a David.
«Certo. Com’è andata?»
«È stato interessante.» Angela riferì le sue conversazioni con Sherwood e Darnell e ammise che David poteva avere ragione, nell’affermare che forse qualcuno in città sapeva chi aveva ucciso Hodges.
«Grazie per avere riconosciuto i miei meriti», le disse lui, «ma non mi piace che tu te ne vada in giro a fare domande su Hodges.»
«Perché?»
«Per una serie di motivi. Intanto, tutti e due abbiamo ben altro di cui preoccuparci e poi hai mai pensato che potresti metterti a fare domande all’assassino in persona?»
Angela ammise che a questo non aveva pensato. Vedendo che il marito teneva lo sguardo fisso sul fuoco, gli chiese se ci fosse qualcosa che non andava.
«Un’altra mia paziente è fra la vita e la morte.»
«Mi spiace.»
«Un altro disastro.» David aveva la voce incrinata. «Temo che muoia, proprio come Marjorie e John Tarlow. Non so che cosa fare, forse non avrei dovuto fare il medico.»
Angela girò intorno al tavolo e lo abbracciò, sussurrandogli: «Sei un medico meraviglioso. Ci sai fare e i pazienti ti adorano».
«Non mi adorano, quando muoiono. Quando me ne sto lì seduto nell’ambulatorio, nello stesso posto dove si è ucciso Portland, comincio a pensare che adesso capisco perché lo ha fatto.»
Angela lo scosse per le spalle. «Non voglio sentirti parlare così. Hai parlato di nuovo con Kevin Yansen?»
«Non di Portland. Sembra che quest’argomento non gli interessi più.»
«Sei depresso?»
«Un po’, ma tengo la cosa sotto controllo.»
«Promettimi che me lo dirai, se non ci riuscirai più.»
«Promesso.»
«Qual è il problema, con questa paziente?» domandò Angela, risedendosi al suo posto.
«È questo che mi sconvolge», le rispose David. «In realtà non lo so. Aveva una sinusite, che stava guarendo con gli antibiotici, poi, per qualche motivo sconosciuto, le è venuta la polmonite. Anzi, no, prima ancora è caduta in uno stato di sonnolenza, poi è diventata apatica, infine le è venuto un attacco di epilessia. L’ho fatta visitare da un oncologo, da un neurologo, da uno specialista in malattie infettive e nessuno di loro ci ha capito niente.»