Qualche colpo di clacson costrinse Robertson a riportare l’attenzione sul traffico, ma questo non gli impedì di dare altri consigli ad Angela. «Lei e la sua famiglia siete arrivati da poco a Bartlet. Dovreste pensarci due volte prima di interferire in questioni che non vi riguardano, evitereste di trovarvi nei guai.»
«Finora i guai me li ha procurati lei e, da quello che ho capito, lei è uno di quelli che non si dispiacciono poi tanto per l’assassinio di Hodges, dato che lo ritiene a torto responsabile della morte di sua moglie.»
Robertson smise di nuovo di dirigere il traffico e si voltò verso Angela, rosso come un peperone. «Che cosa ha detto?»
Lei fece per ripetere la frase, ma David s’insinuò fra lei e il poliziotto, costringendola ad allontanarsi. Aveva seguito la conversazione a qualche passo di distanza e non gli piaceva la piega che stava prendendo.
«Che diavolo ti prende?» sussurrò. «Stai stuzzicando un uomo che ha evidenti problemi di personalità. Non ti sembra di esagerare, con la tua smania di drammaticità?»
«Mi stava mettendo in ridicolo.»
«Piantala, parli come una bambina.»
«Ci dovrebbe proteggere, dovrebbe far rispettare la legge e invece non gli importa niente di chi ha scritto questo biglietto, come non gli importa niente di chi ha ucciso Hodges.»
«Calmati! Stai facendo una scenata davanti a tutti.»
Angela si guardò intorno e vide alcune persone si erano fermate e la stavano fissando. Allora cercò di darsi un contegno, mise il biglietto anonimo nella borsetta, si lisciò la gonna e prese Nikki per mano, dicendo: «Su, non facciamo tardi per la funzione».
Caroline incontrò Nikki dopo la funzione religiosa, si unì ai Wilson quando si fermarono a mangiare all’Iron Horse e poi rimase a casa loro con Nikki e Alice Doherty, mentre David e Angela si recarono in ospedale.
I parenti di Mary Ann erano nell’atrio e Angela andò loro incontro, entrando subito in argomento.
«Mio marito vi ha chiesto l’autorizzazione per eseguire l’autopsia e vi volevo dire che sarò io a farla. Dato che né l’ospedale né il CMV pagano questo servizio, lo farò io nel mio tempo Ubero. Sarà completamente gratuito, potrebbe fornire informazioni utilissime.»
«È molto generoso da parte sua», osservò Donald. «Eravamo ancora indecisi sul da farsi, ma dopo le cose che mi ha detto, credo di essere d’accordo.» Si voltò verso gli altri, che annuirono. «Penso che Mary Ann lo avrebbe desiderato, se può servire ad aiutare altre persone.»
«Penso che possa servire, sì», confermò Angela.
Marito e moglie scesero nei sotterranei per prelevare il corpo di Mary Ann dall’obitorio, poi lo portarono nella stanza delle autopsie. Non essendo più stata usata da diversi anni, era diventata una specie di magazzino e dovettero togliere alcuni scatoloni dal tavolo di acciaio inossidabile, prima di adagiarvi sopra il cadavere.
David si era preparato ad assistere la moglie, ma lei si accorse ben presto che gli era difficile rimanere lì: non soltanto non era abituato alle autopsie, ma si trattava di una paziente che aveva curato fino al giorno prima.
«Perché non vai a visitare i tuoi pazienti?» gli propose.
«Sei sicura di farcela da sola?»
«Certo. Ti manderò a chiamare, quando ho finito, così mi aiuti a riportarla di sotto.»
«Grazie.» David era già arrivato alla porta, ma poi si voltò e le raccomandò: «Ricordati che potrebbe trattarsi di un virus sconosciuto, stai attenta. E voglio anche un’analisi tossicologica completa».
«Perché?»
«Voglio considerare tutte le possibilità. Accontentami, va bene?»
«Come vuoi, ma adesso fuori di qui!» esclamò lei sollevando un bisturi e agitandoglielo contro.
David si tolse guanti, maschera e camice e si diresse al secondo piano, contento di essere stato esonerato da quel compito ingrato. Aveva intenzione di dimettere subito Jonathan, ma gli bastò entrare in camera sua per cambiare idea: anziché allegro e chiacchierone come al solito, lo trovò depresso, con gli occhi spenti e in preda ai lamenti.
David sentì subito scattare l’allarme dentro di sé e, quando domandò a Jonathan che cosa avesse che non andava, non si stupì troppo della risposta.
«Tutto. Ho cominciato con i crampi, poi nausea e diarrea. Non ho appetito e devo deglutire in continuazione.»
«Che cosa significa che deve deglutire?»
«Mi si riempie la bocca di saliva. Devo inghiottirla o sputarla.»
David cercò disperatamente di fare collimare questi sintomi con qualche malattia riconoscibile. La salivazione gli fece venire in mente qualcosa dei tempi dell’università e si ricordò che era uno dei sintomi dell’avvelenamento da mercurio.
«Ha mangiato qualcosa di strano ieri sera?» domandò.
«No.»
«E la flebo?»
«Mi è stata tolta ieri, dopo i suoi ordini.»
David fu preso dal panico. A parte la salivazione, i sintomi di Jonathan gli ricordavano quelli di Marjorie, John e Mary Ann. Sintomi che avevano preceduto un rapido peggioramento e la morte.
«Che cosa c’è che non va?» domandò Jonathan, intuendo l’ansia del suo medico. «Non è qualcosa di serio, eh?»
«Speravo di mandarla a casa», tergiversò David, «ma se si sente così male è meglio che rimanga qui altri due o tre giorni.»
«Come vuole, ma mi rimetta in sesto presto; ho un anniversario di matrimonio da festeggiare, il prossimo weekend.»
David corse nella stanza delle infermiere con la mente in subbuglio. Continuava a dirsi che non poteva accadere ancora, era impossibile, le probabilità erano più che minime.
Rilesse accuratamente la cartella clinica e notò che la temperatura era salita a trentasette gradi. Doveva considerarla febbre? Tornò di corsa da John e lo auscultò: i polmoni erano perfettamente puliti.
Ritornato nella stanza delle infermiere, David si sedette alla scrivania, il viso fra le mani. Non sapeva che cosa fare, ma doveva agire.
D’impulso allungò la mano verso il telefono. Pur sapendo la reazione che avrebbero avuto Kelley e il CMV, chiamò l’oncologo e lo specialista in malattie infettive, pregandoli di raggiungerlo immediatamente, perché gli si era presentato un caso molto simile a quelli mortali che si erano verificati nei tre giorni precedenti, ma ancora in una fase iniziale.
Mentre li aspettava, ordinò tutta una serie di analisi. Magari il suo paziente si sarebbe risvegliato benissimo, il giorno dopo, ma lui non voleva correre il rischio che facesse la fine degli altri tre. Il suo sesto senso, in ogni caso, gli diceva che Jonathan era già prigioniero di una lotta mortale.
Arrivarono il dottor Hasselbaum, che visitò subito il paziente, e il dottor Mieslich, che mostrò a David tutti i referti relativi a Jonathan, da quando lo aveva preso in cura per il cancro alla prostata. Quindi tutti e tre si sedettero nella stanza delle infermiere e iniziarono a confrontare le loro opinioni, ma a un certo punto David si accorse che i suoi due colleghi stavano guardando oltre le sue spalle. Si girò e vide la massiccia figura del dottor Kelley dietro di lui.
«Dottor Wilson, posso scambiare due parole con lei nella sala di ritrovo dei pazienti?» gli chiese, ma sembrava più un ordine.
«Adesso ho troppo da fare», rispose David e si voltò verso i colleghi.
«Temo di dover insistere», ribatté Kelley, toccandolo su una spalla. David gli tirò via la mano.
«Io ne approfitterò per visitare il paziente», dichiarò il dottor Mieslich e si allontanò.
«E io per scrivere il mio referto», disse Hasselbaum.
«Va bene, allora andiamo.» David si alzò e seguì Kelley fino alla saletta dei pazienti dove, sul divano, erano sedute due persone.
«Suppongo che lei conosca Helen Beaton, presidente dell’ospedale», disse Kelley, «e Michael Caldwell, direttore medico.»