Quando arrivò al laboratorio, trovò la solita pila di lavoro che si era accumulato durante il weekend e si tolse rapida il cappotto per iniziare a lavorare, ma vide che Wadley se ne stava immobile sulla soglia della propria stanza, come se la stesse aspettando.
«Buongiorno», lo salutò, facendo di tutto per apparire disinvolta, ma capì subito che si preparava un temporale.
«Mi è stato segnalato che lei ha eseguito un’autopsia qui nel laboratorio», disse infatti il suo capo.
«È vero, ma l’ho fatta nel mio tempo libero.»
«Può anche averla fatta nel suo tempo libero, ma nel mio laboratorio.»
«È vero, ho utilizzato le attrezzature dell’ospedale», puntualizzò Angela, a cui non piaceva che Wadley considerasse il laboratorio come proprio. Era un dipendente dell’ospedale, come lei.
«Le era stato detto esplicitamente di non fare autopsie.»
«Mi era stato detto che non vengono pagate dal CMV.»
I freddi occhi di Wadley fissarono Angela senza battere ciglio. «Allora mi permetta di chiarire un malinteso. In questo reparto non devono essere fatte autopsie, a meno che non le autorizzi io stesso. Sono io a dirigere il reparto, non lei. Inoltre, ho ordinato ai tecnici di non procedere all’esame dei vetrini, delle colture e dei campioni.»
Detto questo, Wadley ritornò nel suo ufficio chiudendo la porta con un colpo secco.
Angela si sentiva a pezzi, come le capitava ogni volta che aveva un confronto con Wadley, ma si sforzò di restare calma e raccolse tutti i campioni che aveva prelevato dal corpo di Mary Ann. Impacchettò con cura le colture e il materiale tossicologico e li spedì a Boston, al reparto dove aveva svolto il tirocinio. Aveva ancora molti amici laggiù a cui chiedere un piacere. I campioni di tessuto, invece, li tenne per esaminarli lei stessa.
David compì il giro dei pazienti lasciando Jonathan per ultimo e, quando entrò in camera sua, trovò il letto vuoto.
Chiese subito il motivo alla caposala e lei gli rispose che quella notte i medici del pronto soccorso avevano trasferito il signor Eakins all’unità di terapia intensiva, perché aveva avuto un’insufficienza respiratoria ed era entrato in coma.
David era sbalordito. «Perché non sono stato avvertito?»
«Avevamo l’ordine specifico di non chiamarla», gli rispose Janet.
«Emesso da chi?»
«Da Michael Caldwell, il direttore medico dell’ospedale.»
«È assurdo…» cominciò a sbraitare David.
«Ci è stato detto di riferirle che, se ha qualche questione da chiarire, si deve rivolgere alla signora Beaton», lo interruppe Janet. «Non se la prenda con noi.»
David era fuori di sé dalla rabbia. Il direttore medico non aveva nessun diritto di emettere un ordine del genere. Era già abbastanza intollerabile che quegli ammin
Mantenne però abbastanza sangue freddo da capire che non era giusto prendersela con l’infermiera e poi in quel momento, più che discutere, gli interessava controllare le condizioni di Jonathan.
Lo trovò in coma e sotto respiratore, proprio com’era accaduto a Mary Ann. Lo auscultò e scoprì che anche a lui era venuta la polmonite. Leggendo l’etichetta del flacone che gli veniva somministrato per via endovenosa, vide che si trattava di antibiotici.
Come aveva fatto per gli altri pazienti, riesaminò con cura maniacale la cartella clinica di Jonathan e gli balzò subito agli occhi che il decorso era stato identico: problemi gastrointestinali, al sistema nervoso centrale e a quello sanguigno.
Stava per telefonare a Helen Beaton, quando un’infermiera gli porse un altro telefono: era in linea Charles Kelley.
«Avevo dato istruzioni alle infermiere dell’unità di terapia intensiva di avvisarmi appena lei fosse arrivato», gli annunciò senza preamboli. «Volevo avvisarla che il caso Eakins è stato affidato a un altro medico del CMV.»
«Non può farlo», ribatté David, fuori di sé dalla collera.
«Si calmi, dottor Wilson. Il CMV ha tutto il diritto di trasferire un paziente a un altro medico. Lo abbiamo notificato alla famiglia e loro sono d’accordo.»
«Perché lo ha fatto?» Sapere che la famiglia era d’accordo fece perdere a David parte della propria sicurezza.
«Lei ci sembra troppo coinvolto emotivamente e abbiamo deciso che sarebbe stato meglio per tutti toglierle il caso. Questo le darà la possibilità di calmarsi, sappiamo che è sotto pressione.»
David non sapeva che cosa pensare, tanto meno che cosa dire. Avrebbe potuto far notare a Kelley che il decorso della malattia si era svolto come lui aveva previsto, ma aveva la sensazione che non lo avrebbe nemmeno ascoltato.
«Non dimentichi quello che abbiamo detto ieri», aggiunse Kelley. «So che comprenderà il nostro punto di vista, se solo ci pensa un po’.»
Quando riattaccò, David si sentiva diviso: da un lato era furibondo per essere stato estromesso dal caso, dall’altro capiva che un po’ di ragione Kelley l’aveva. Gli bastò vedere come gli tremavano le mani per riconoscere che era davvero troppo coinvolto emotivamente.
Se ne andò quasi barcollando, senza nemmeno passare a vedere Jonathan. Poiché era troppo presto per iniziare le visite in ambulatorio, passò dallo schedario dei referti. Prese le cartelle cliniche di Marjorie, di John e di Mary Ann, si sedette a un tavolo isolato e le riesaminò da cima a fondo.
Non aveva abbandonato l’idea di un’infezione sconosciuta, qualcosa che i suoi pazienti potevano avere contratto in ospedale. Una cosa simile veniva chiamata infezione nosocomiale e lui ne aveva letto qualcosa, sapeva che in qualche altro ospedale era capitata. Tutti i suoi pazienti avevano avuto la polmonite, ma in ogni caso era stata causata da batteri diversi. Doveva essere stata il risultato di un’altra infezione, che però non era evidente.
L’unico elemento in comune ai tre casi era l’anamnesi. Ogni paziente era stato curato per il cancro con varie terapie di chirurgia, chemioterapia e radioterapia. Fra loro tre, però, l’elemento comune era soltanto la chemioterapia.
David sapeva che la chemioterapia abbassa moltissimo le difese immunitarie dei pazienti e si chiedeva se questo avesse a che fare con il rapido peggioramento che aveva notato in tutti e tre. L’oncologo, però, aveva detto che la chemioterapia stata terminata molto tempo prima e che quindi il loro sistema immunitario doveva ormai essere ritornato normale.
Il cercapersone che aveva alla cintura si irrise a suonare, interrompendo il corso dei suoi pensieri; dal numero sullo schermo, David vide che lo chiamavano dal pronto soccorso; allora mise via i referti e scese al piano di sotto.
Il paziente in attesa era Donald Anderson, uno dei frequentatori più assidui del suo ambulatorio. Era diabetico e spesso non era facile tenere a bada la sua malattia. A David bastò guardarlo, per capire che il glucosio nel sangue era a livelli incontrollabili e che Donald si trovava già in stato semicomatoso.
Ordinò subito un test per la glicemia e gli applicò una flebo, poi andò a parlare con la moglie, Shirley Anderson.
«Era una settimana che non stava bene», gli disse lei, «ma lo sa com’è testardo, non voleva venire a farsi vedere.»
«Credo che dovremo ricoverarlo. Ci vorrà qualche giorno per riportare la situazione sotto controllo.»
Quando esaminò i risultati delle analisi, David si stupì che Donald non stesse ancora peggio. Tornò da lui, che grazie alla flebo si era già ripreso, e vide che nella stanzetta contigua era distesa Caroline, l’amica di Nikki. Accanto a lei c’era il dottor Pilsner e David entrò per salutarla. Lei gli rispose soltanto con lo sguardo, perché la bocca era coperta dalla mascherina dell’ossigeno. Aveva la pelle color cenere, quasi azzurrina, ed era evidente che respirava a fatica.