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Finito il lavoro in ambulatorio, salì al secondo piano per vedere i suoi pazienti e rimuginò sul fatto che le uniche persone con l’influenza che aveva visto finora erano delle infermiere e che tutte provenivano da quel piano.

Si fermò di botto, domandandosi se fosse solo una coincidenza il fatto che le infermiere ammalate provenissero tutte dallo stesso piano, quello dove si erano concentrati i pazienti la cui malattia aveva avuto esito mortale. Certo, il novanta per cento dei pazienti veniva ricoverato al secondo piano, ma gli sembrò strano che nessuna infermiera delle sale operatorie o del pronto soccorso avesse contratto l’influenza.

Riprese a camminare, ma non riusciva a scacciare di mente l’idea che i suoi pazienti fossero morti di una malattia infettiva contratta proprio in ospedale. I sintomi influenzali che avevano le infermiere potevano avere una relazione con quelle morti. Provò a collegare le due cose: le infermiere, sane e robuste, se venivano in contatto con l’agente patogeno misterioso reagivano con sintomi lievi, mentre pazienti che erano stati sottoposti alla chemioterapia, e quindi con un sistema immunitario leggermente compromesso, si ammalavano in modo fatale. Poteva reggere quell’ipotesi?

David concluse che il suo ragionamento era valido, ma non gli veniva in mente nessuna malattia che rispondesse ai requisiti. Avrebbe dovuto colpire l’apparato gastrointestinale, il sistema nervoso centrale e il sangue ed essere molto difficile da diagnosticare, anche per un medico esperto come il dottor Hasselbaum.

Pensò anche a un’intossicazione ambientale. L’eccessiva salivazione di Jonathan gli aveva fatto venire in mente il mercurio. Ma come poteva essersi diffuso? Se fosse stato presente nell’aria, allora sarebbero state moltissime le persone con quei sintomi. Comunque, non scartò la possibilità di un veleno e decise di aspettare fino ai risultati dei test tossicologici su Mary Ann.

Arrivato al secondo piano, visitò tutti i pazienti e li trovò piuttosto bene. Persino Donald non aveva bisogno di attenzioni particolari, ma David gli variò ancora il dosaggio dell’insulina.

Finito il giro in corsia, scese al laboratorio, da Angela.

«Come sta Eakins?» gli domandò lei appena lo vide.

«Te lo dirò più tardi.»

Angela lo scrutò da vicino. «Va tutto bene?»

«No, ma non ho voglia di parlarne adesso.»

Lei si scusò con il tecnico con cui stava lavorando e prese il marito in disparte per raccontargli della scenata di Wadley a causa dell’autopsia.

«Mi spiace», mormorò lui.

«Non è colpa tua, Wadley è un somaro. Il suo ego è stato bistrattato. Ma il problema è che ha impedito che i campioni fossero analizzati.»

«Accidenti. Ci tenevo davvero all’esame tossicologico.»

«Non preoccuparti. Ho mandato tutto a Boston, anche le colture. I vetrini, invece, li farò io. Mi fermerò stasera, se ci pensi tu a preparare la cena per te e per Nikki.»

David le assicurò che lo avrebbe fatto volentieri e uscì dall’ospedale, contento di affrontare la solita pedalata ristoratrice.

Arrivato a casa, rimase a fare dei lavoretti in cortile insieme a Nikki finché ci fu abbastanza luce, poi preparò la cena, mentre lei faceva i compiti. Dopo mangiato, le comunicò la notizia del ricovero di Caroline.

«Sta proprio male?» chiese Nikki, preoccupata.

«Quando l’ho vista soffriva parecchio.»

«Domani voglio andare a farle visita.»

«Immagino che tu abbia voglia di vederla, però ricordati che anche tu eri un po’ congestionata ieri sera. Credo che sia meglio se aspetti fino a quando sappiamo con sicurezza che cos’ha. Va bene?»

Nikki annuì, ma non era contenta. David la convinse, tanto per essere ancora più sicuri della sua salute, a ripetere gli esercizi di drenaggio che abitualmente faceva solo al mattino. Poi la mise a letto e, tornato al pianterreno, si ritrovò ben presto a sfogliare un testo sulle malattie infettive. Non cercava niente di particolare, sperava soltanto che gli balzasse agli occhi qualcosa che potesse ricollegare alla morte dei suoi pazienti e al malessere delle infermiere. A un certo punto si accorse di essersi addormentato sul libro aperto. Si riscosse e guardò l’orologio: le undici e Angela non era ancora tornata.

Preoccupato, le telefonò al laboratorio.

«Ci sto mettendo più del previsto», gli rispose. «Lo so, avrei dovuto telefonarti, ma ormai ho quasi finito. Entro un’ora sarò a casa.»

«Ti aspetto.»

Passò più di un’ora, prima che Angela avesse finito del tutto. Chiuse alcuni vetrini in una valigetta di metallo, pensando che a David avrebbe fatto piacere dar loro un’occhiata con il microscopio che avevano a casa e si diresse verso l’uscita.

Non vedendo la Volvo, si ricordò che aveva dovuto lasciarla nel parcheggio superiore e s’incamminò brontolando dentro di sé: non solo era esausta, ma aveva anche il peso della valigetta.

Attraversò tutto il parcheggio inferiore, dove ormai c’erano pochissime auto, e si avvicinò al sentiero che conduceva a quello superiore. Si accorse di essere completamente sola e cominciò a sentirsi a disagio, tanto più che le parve di udire dei passi dietro di lei. Si voltò, ma non vide nulla.

Proseguì, pensando che fossero animali selvatici. Aveva sentito dire che, di tanto in tanto, venivano segnalati orsi bruni in quella zona. Si chiese che cosa avrebbe fatto, se gliene fosse capitato uno davanti all’improvviso.

«Non fare la stupida», si disse e proseguì, non vedendo l’ora di arrivare a casa. Era mezzanotte passata.

Il parcheggio inferiore era molto ben illuminato, ma imboccando il sentiero che conduceva a quello superiore, Angela si fermò un attimo per dare tempo ai suoi occhi di abituarsi all’oscurità. Lungo il sentiero non c’erano lampioni e la folta vegetazione di sempreverdi formava una specie di galleria.

L’abbaiare di un cane in lontananza la fece sobbalzare. Si addentrò ancora di più lungo il sentiero e arrivò alla scaletta che portava alla terrazza superiore. Udì gli scricchiolii del bosco e il frusciare del vento e si sentì ancora più nervosa. Le venne in mente l’episodio della cantina, quando David e Nikki l’avevano spaventata, e quel ricordo non servì certo a rassicurarla.

In cima alle scale, il sentiero ritornava pianeggiante e svoltava a sinistra. A una cinquantina di metri, Angela poteva vedere il parcheggio superiore, anch’esso bene illuminato.

Si era appena tranquillizzata, quando dall’ombra balzò fuori un uomo, in modo così fulmineo che lei non ebbe modo di tentare la fuga. Brandiva un bastone, che teneva alto sopra la testa, e aveva il viso coperto da occhiali da sci a maschera.

Arretrando istintivamente, Angela inciampò in una radice e cadde a terra. L’uomo le si gettò addosso e lei gridò, rotolando da una parte. Poté udire il colpo del bastone che affondava nell’erba soffice, dove un istante prima era la sua testa.

Appoggiandosi sulle mani e sulle ginocchia, si rimise in piedi, ma l’uomo l’afferrò con una mano guantata e sollevò nuovamente il bastone. Allora lei lo colpì all’inguine con la valigetta di metallo, con tutta la forza di cui era capace. Lui gridò dal dolore e allentò la presa sul suo braccio.

Non potendo tornare indietro, verso l’ospedale, perché la strada era bloccata dal suo assalitore, corse verso il parcheggio superiore e il terrore le mise le ali ai piedi. Sentiva l’uomo dietro di lei, ma non osava voltarsi. Arrivò alla Volvo con un solo pensiero in mente: il fucile.

Lasciò cadere a terra la valigetta e armeggiò con le chiavi, fino ad aprire il bagagliaio. Afferrò il fucile, strappò via la carta in cui era avvolto e pescò un proiettile dalla scatola che le era stata fornita.