«Questa storia l’ho già sentita», commentò con amarezza David. «Venga qui subito. La visiterò immediatamente.»
L’ascesso faceva impressione. Tutto un lato del volto di Sandra era deformato dal gonfiore e i linfonodi sotto la mandibola erano grossi quasi quanto una palla da golf.
«Dev’essere ricoverata», le disse David.
«Non posso, ho troppo da fare e il mio bambino di dieci anni è a casa con la varicella.»
«Deve trovare una soluzione. Non posso lasciarla andare in giro con addosso questa bomba a orologeria.»
David le spiegò dettagliatamente l’anatomia di quella parte del corpo, sottolineando come l’ascesso fosse pericolosamente vicino al cervello. «Se l’infezione arriva al sistema nervoso, allora sì che avremo guai seri. Ha bisogno di una somministrazione continua di antibiotici, non è uno scherzo.»
Sandra si convinse. David riempì per lei i documenti necessari e scrisse la terapia a cui doveva essere sottoposta, quindi la mandò all’accettazione, non senza avere avvisato l’impiegata del suo arrivo.
Angela si sentiva a pezzi. Diverse tazze di caffè non erano servite a tirarla su. Si era addormentata non prima delle tre e non aveva dormito bene, a causa di vari incubi in cui comparivano il cadavere di Hodges, lo stupratore con gli occhiali da sci e il mattone che aveva rotto i vetri.
Quando si svegliò, si stupì vedendo che David era già andato al lavoro. Mentre si vestiva, ripensò alla promessa che gli aveva fatto di cercare di dimenticare Hodges, ma le sembrava difficile da mettere in pratica.
Si chiese che fine avesse fatto Phil Calhoun e pensò che, se anche non aveva scoperto nulla, avrebbe dovuto farsi vivo con lei. Provò a telefonargli, ma trovò la segreteria telefonica e decise di non lasciare nessun messaggio.
Quando vide che Nikki era già alzata, la chiamò per gli esercizi respiratori, ma la bimba le disse che li aveva già fatti con il padre.
«Davvero?» si stupì Angela. «E la colazione?»
«Abbiamo fatto anche quella.»
«A che ora vi siete alzati?»
«Verso le quattro.»
Angela non era contenta che David si alzasse così presto. L’insonnia è spesso un sintomo di depressione e non le piaceva nemmeno che Nikki seguisse l’esempio del padre.
«Come ti sembra che stesse papà, stamattina?» le chiese.
«Bene. Ha chiamato mentre facevi la doccia per dire che Caroline sta bene e che questo pomeriggio posso andare a trovarla.»
«Oh, questa sì che è una bella notizia!»
«E poi mi ha anche chiesto di ricordarti di un fucile. Aveva un’aria strana, come se pensasse che io non sappia che cos’è un fucile.»
«È preoccupato», spiegò Angela. «Non è uno scherzo. Le armi, se lasciate in mano ai bambini, sono un pericolo. Molti bambini ogni anno rimangono uccisi a causa delle armi tenute in casa, anche se le statistiche riguardano soprattutto le rivoltelle.»
Angela andò a prendere il fucile e tolse il proiettile, spiegandole come si faceva a capire che in quel modo il fucile era scarico. Poi glielo fece maneggiare, insegnandole a caricarlo, scaricarlo e a premere il grilletto. Dopo di che andarono dietro il fienile e tirarono un colpo a testa. Nikki disse che non le piaceva sparare perché le faceva male alla spalla.
Quando rientrarono, Angela mise via il fucile e disse alla figlia che non doveva toccarlo, ma lei rispose di non preoccuparsi, perché non voleva averci niente a che fare.
Visto che la giornata si preannunciava calda e soleggiata, Nikki andò a scuola in bicicletta e sua madre la guardò allontanarsi, pensando che per lo meno Bartlet giovava alla sua salute.
Arrivata all’ospedale, Angela non seppe resistere alla tentazione di fare un sopralluogo sul posto dov’era stata aggredita. Arrivò sul sentiero fra gli alberi e individuò le proprie impronte nel fango, poi scoprì il segno che aveva lasciato il bastone conficcandosi nel terreno.
Era profondo circa dieci centimetri. Ci mise dentro le dita e rabbrividì. Il ricordo del sibilo che il bastone aveva fatto nel passarle accanto all’orecchio era fin troppo vivido. Le parve di ricordare persino un bagliore metallico.
All’improvviso, si rese conto di qualcosa che fino ad allora le era sfuggito: il suo aggressore non aveva esitato. Non aveva avuto intenzione di violentarla, ma di colpirla, magari di ucciderla, e, se lei non fosse rotolata via, il colpo l’avrebbe raggiunta alla testa.
Ripensò alle ferite nel cranio di Hodges, che aveva esaminato durante l’autopsia. Era stato colpito con una sbarra di metallo. Anche lei avrebbe potuto ritrovarsi con la testa ridotta in quel modo!
Nonostante la sua sfiducia in lui, telefonò a Robertson.
«Lo so perché mi chiama», disse subito lui, irritato, «e se lo può scordare. Non ho intenzione di mandare quel mattone alla polizia di Stato per le impronte digitali, mi riderebbero dietro.»
«Non la chiamo per il mattone», ribatté Angela e gli spiegò che, secondo lei, l’aggressione che aveva subito non era stata un tentativo di stupro, ma un tentativo di omicidio.
Robertson rimase talmente in silenzio da farle venire il dubbio che avesse riattaccato. «Pronto?» disse dopo qualche momento.
«Ci sono. Sto pensando.»
Ci fu un’altra pausa.
«No, non ci credo. Quel tipo è uno stupratore, non un assassino. In passato ha avuto la possibilità di uccidere e non l’ha fatto. Diavolo, non ha nemmeno fatto del male a quelle che ha violentato!»
Angela si chiese se le vittime degli stupri sarebbero state d’accordo su quella considerazione, ma non voleva discutere con Robertson dell’argomento. Si limitò a ringraziarlo per il tempo che le aveva dedicato e riattaccò.
«Che bestia!» esclamò a voce alta. Era stata una stupida a credere che Robertson le avrebbe dato retta. Eppure, più ci pensava, più si convinceva che lo scopo di quell’aggressione non era stato lo stupro e, se si trattava di un tentativo di omicidio, allora poteva essere collegato al caso Hodges. Forse l’uomo era l’assassino di Hodges!
Angela rabbrividì. Se aveva ragione, allora qualcuno spiava le sue mosse. L’idea la terrorizzò. Qualunque cosa avesse intenzione di fare, doveva essere sicura di riuscire a far credere che rinunciava a occuparsi della questione.
Si chiese se dovesse condividere con David i suoi sospetti. Da un lato, non voleva che fra loro ci fossero segreti, ma dall’altro sapeva che lui avrebbe insistito ancora di più per farle abbandonare le indagini sul caso Hodges. Per il momento, decise che lo avrebbe detto solo a Phil Calhoun, se e quando lo avesse sentito.
Come facevano ogni mese, Traynor, Sherwood,Helen Beaton e Caldwell si trovarono all’Iron Horse Inn per la prima colazione, per organizzare la riunione del comitato esecutivo che si sarebbe tenuto la sera del lunedì seguente.
«È incoraggiante», annunciò Helen. «Le cifre preliminari della seconda metà di ottobre sono migliori di quelle della prima metà. Non siamo ancora fuori pericolo, ma le cose vanno decisamente meglio che a settembre.»
«Teniamo una questione sotto controllo e dobbiamo affrontarne un’altra», si lamentò Traynor. «Non si finisce mai. Che cos’è questa storia del medico aggredito nel parcheggio la notte scorsa?»
«È successo poco dopo mezzanotte», riferì Caldwell. «È la nuova patologa, la dottoressa Angela Wilson. Ha lavorato fino a tardi.»
«Dove è successo, esattamente?» domandò Traynor, picchiettando nervosamente il martelletto sul palmo della mano.
«Nel sentiero fra i due parcheggi», rispose Caldwell.
«I lampioni sono stati messi?»
Caldwell guardò Helen Beaton, che ammise: «Non lo so, ma controlleremo appena arriviamo in ospedale».
«È meglio che ci siano», aggiunse cupo Traynor, dandosi un colpo di martelletto più forte degli altri. «Non sono riuscito a convincere i consiglieri comunali ad approvare la costruzione del garage. Non c’è modo che lo si possa riproporre prima della prossima primavera.»