«Si può ripararlo, ma si romperà ancora.»
«Voglio che lo ripariate, allora.»
«Lo faremo quando ne avremo tempo, non mi scocci. Ho cose più importanti da fare.»
«Perché è così maleducato?» sbottò David.
«Senti chi parla! È lei che è entrato qua dentro gridando. Se ha un problema, vada in amministrazione.»
«Lo farò.» David girò sui tacchi e salì le scale per andare subito da Helen Beaton, ma, arrivato all’ingresso, vide il dottor Pilsner che stava entrando in ospedale e lo chiamò.
«Posso parlarle un momento?» gli chiese.
L’altro si fermò e lui lo mise al corrente delle condizioni di salute di Nikki, chiedendogli se pensava che una terapia antibiotica per via orale potesse servire. Si accorse però che non lo stava ascoltando e appariva molto agitato.
«C’è qualcosa che non va?» gli domandò.
«Mi spiace, sono distratto. Caroline Helmsford durante la notte ha avuto un peggioramento e sono rimasto qui di continuo. Ho fatto soltanto un salto a casa per farmi una doccia e cambiarmi.»
«Che cosa le è successo?»
«Venga e vedrà lei stesso. L’abbiamo portata all’unità di terapia intensiva, perché le è venuto un attacco epilettico.»
Nel sentire questo, David si fermò, sbalordito: gli ricordava troppo quello che era accaduto ai suoi pazienti. Si mise quasi a correre per stare al passo con Pilsner, che intanto gli diede altri dettagli.
«Poi si è sviluppata rapidamente la polmonite. Le ho tentate tutte, ma non sembra che sia servito a qualcosa.»
Quando arrivarono alla porta dell’unità di terapia intensiva, Pilsner vi si appoggiò contro e sospirò. «Temo di trovarla in choc settico. Dobbiamo mantenere la pressione del sangue, non va bene niente. Temo di perderla.»
Caroline era in coma. Dalla bocca le usciva un tubo collegato al respiratore e sul suo corpo si intrecciavano cavi e tubicini della flebo. I monitor registravano il polso e la pressione sanguigna. David rabbrividì nel guardarla; con gli occhi della mente immaginò Nikki al posto suo e rimase terrorizzato.
Pilsner uscì con lui dalla stanza e gli parlò delle condizioni di Nikki, dicendosi d’accordo per una terapia antibiotica orale. Nel salutarlo, David cercò di dirgli qualche parola incoraggiante, perché sapeva benissimo come si sentiva.
Prima di scendere in ambulatorio, telefonò a casa per dire ad Angela degli antibiotici e la informò anche delle condizioni di Caroline, lasciandola sbalordita.
«Credi che morirà?» gli chiese lei.
«Il dottor Pilsner pensa di sì.»
«Nikki era con lei, ieri.»
«Non hai bisogno di ricordarmelo. Ma ieri Caroline stava bene, era senza febbre.»
«Oh, Signore! Non c’è mai tregua. Potresti portare a casa gli antibiotici, durante la pausa?»
«Sì.»
«Io andrò a Burlington, come previsto.»
«Ci vai lo stesso?»
«Certo. Calhoun mi ha telefonato per confermare. Ha già parlato con l’ufficiale responsabile del reparto di polizia scientifica di Burlington.»
«Buon viaggio.» David riattaccò prima di dire qualcosa di cui poi avrebbe potuto pentirsi. Era oltremodo irritato nel vedere che, con quello che stava accadendo a Caroline, con i rischi per Nikki, Angela continuasse a essere ossessionata dal caso Hodges.
«La ringrazio per avermi ricevuto», disse Calhoun sedendosi davanti alla scrivania di Helen Beaton. «Come ho detto alla sua segretaria, ho solo poche domande da farle.»
«E io ne ho una per lei.»
«Chi comincia per primo?» chiese Calhoun, che poi tirò fuori la scatola dei sigari, chiedendo: «Posso fumare?»
«No, non si può fumare in ospedale e penso che dovrò essere io a fare per prima la domanda. Dalla sua risposta dipenderà la lunghezza di questo incontro.»
«Come vuole.»
«Chi l’ha assunto?»
«Questa è una domanda indiscreta.»
«Perché?»
«Perché il mio cliente ha diritto alla riservatezza. Adesso tocca a me. So che il dottor Hodges era un assiduo frequentatore del suo ufficio.»
«Scusi se la interrompo!» interloquì Helen Beaton. «Se i suoi clienti scelgono di rimanere anonimi, allora io non vedo motivo di collaborare.»
«Questo dipende da lei. Naturalmente ci sarà qualcuno che si chiederà come mai il presidente di un ospedale ha difficoltà a parlare del suo immediato predecessore. Potrebbero persino pensare che lei sa chi ha ucciso Hodges.»
«La ringrazio per essere venuto», replicò Helen, alzandosi e sorridendo. «Non mi convincerà a parlare, se non mi dice che sta dietro alla faccenda. La mia principale preoccupazione è l’ospedale. Buongiorno, signor Calhoun.»
Lui si alzò. «Ho la sensazione che ci rivedremo molto presto», disse mentre usciva.
La sua tappa successiva fu l’ufficio tecnico, dove Werner Van Slyke stava sostituendo i motori elettrici di alcuni letti.
Calhoun si presentò e gli disse che aveva bisogno di parlargli.
«Di che cosa?»
«Di Dennis Hodges.»
«Se non le spiace, continuo a lavorare», rispose Van Slyke, voltandosi di nuovo verso i motori.
«Questi letti costituiscono un problema frequente?» s’informò Calhoun.
«Purtroppo.»
«Dato che lei è il capo del reparto, come mai li aggiusta di persona?»
«Voglio essere sicuro che il lavoro sia fatto bene.»
Calhoun si sedette su uno sgabello accanto al banco da lavoro. «Le spiace se fumo?»
«Come vuole.»
«Pensavo che in ospedale fosse vietato fumare», osservò l’investigatore, estraendo di tasca una scatola di sigari e offrendone uno a Van Slyke. Questi sembrò pensarci sopra, poi lo accettò e lui glielo accese.
«Ho sentito che lei conosceva molto bene Hodges», cominciò Calhoun.
«Era come un padre per me», rispose Van Slyke, dando una tirata soddisfatta al sigaro. «Più del mio vero padre.»
«Addirittura.»
«Se non fosse stato per lui, non sarei mai andato al college. Mi faceva fare alcuni lavoretti a casa sua. Io mi fermavo a dormire lì all’aperto e parlavamo. Con mio padre avevo un sacco di problemi.»
«Davvero?» Calhoun desiderava che il suo interlocutore continuasse a parlare.
«Era un figlio di puttana», gli spiegò Van Slyke, poi tossì. «Quel bastardo mi picchiava fino a lasciarmi mezzo morto.»
«Come mai?»
«Si ubriacava quasi tutte le notti. Mi picchiava e mia madre non poteva farci niente, anzi, le buscava anche lei.»
«Ma voi due, lei e sua madre, non riuscivate a unirvi contro di lui?»
«Eh, no! Lei lo difendeva sempre, sostenendo che lui non aveva intenzione di farmi male. Cercava persino di convincermi che mio padre mi bastonava perché mi voleva bene.»
«Non ha molto senso.»
«Certo che no!» sbottò Van Slyke. «Perché diavolo mi fa tutte queste domande, comunque?»
«M’interesso alla morte di Hodges.»
«Dopo tutto questo tempo?»
«Perché no? Non vorrebbe scoprire chi l’ha ucciso?»
«Che cosa dovrei fare, se lo scoprissi? Dovrei uccidere quel bastardo?» Van Slyke rise finché cominciò a tossire un’altra volta.
«Non starà fumando troppo?» osservò Calhoun.
Van Slyke riuscì a controllare la tosse e scosse la testa. Il viso gli era diventato rosso. Andò a bere un sorso d’acqua a un lavandino lì vicino e, quando tornò indietro, il suo umore era cambiato.
«Penso che abbiamo chiacchierato abbastanza», disse con tono canzonatorio. «Ho un sacco di lavoro da fare. Non dovrei nemmeno stare qui a gingillarmi con questi letti.»
«Allora me ne vado», ribatté Phil Calhoun, scendendo dallo sgabello. «È una regola che mi sono dato: mai stare fra i piedi, quando non si è desiderati. Le spiace se ritorno un’altra volta?»
«Ci penserò.»
Calhoun arrivò fino all’Imaging Center e porse il suo biglietto da visita all’impiegata della reception, chiedendo di parlare con il dottor Cantor.