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Anne McCaffrey

Volo di drago

Mio Dio, sì, c’è una Virginia che mi ha aiutato a creare questo pianeta e tutte le sue meraviglie. E per lei ti ringrazio.

AMJ

PREMESSA

Quand’è che una leggenda è leggenda? Perché un mito è un mito? Quanto deve essere antico e desueto un avvenimento, perché sia possibile relegarlo nella categoria delle «favole»? E perché mai certi fatti rimangono incontrovertibili, mentre certi altri perdono la loro validità per assumere un carattere instabile e nebuloso?

Rukbat, nel settore del Sagittario, era una stella della Classe G, dallo splendore dorato. Aveva cinque pianeti, più uno estraneo, che aveva attirato e catturato nel corso degli ultimi millenni. Il suo terzo pianeta era circondato da un’atmosfera che l’uomo poteva respirare, era ricco di acque che l’uomo poteva bere, e possedeva una gravità che gli consentiva di camminare tranquillamente eretto. Gli uomini lo avevano scoperto e si erano affrettati a colonizzarlo. Lo facevano con tutti i pianeti abitabili; e poi — i coloni non seppero mai, e anzi finirono per non domandarselo più, se ciò fosse avvenuto per insensibilità o causa del crollo dell’Impero — lasciavano alle colonie il compito di arrangiarsi da sole.

In un primo momento, quando gli uomini si erano sistemati sul terzo pianeta di Rukbat e gli avevano dato il nome di Pern, avevano fatto ben poco caso al pianeta estraneo, che ruotava attorno al sole adottivo descrivendo un’orbita follemente irregolare ed ellittica. Entro poche generazioni, ne avevano addirittura dimenticato l’esistenza. Il corso assurdo seguito da quel corpo celeste vagabondo lo conduceva vicino al suo fratellastro ogni duecento anni (terrestri), al perielio.

Quando gli aspetti erano armoniosi e la congiunzione con il pianeta fratello era abbastanza ravvicinata, come accadeva di frequente, gli esseri viventi originari del vagabondo cercavano di attraversare l’abisso spaziale che li divideva dall’astro pianeta, più temperato e ospitale.

Fu durante la lotta frenetica ingaggiata per combattere quella minaccia, che scendeva nei cieli di Pern in una moltitudine di fili argentei, che venne a spezzarsi il tenue contatto tra quel pianeta ed il pianeta madre. I ricordi della Terra continuarono a sbiadire, nel corso della storia di Pern, una generazione dopo l’altra, fino a quando la memoria della lontana origine degenerò, passò al di là della leggenda e del mito, e scivolò nell’oblio.

Per impedire le incursioni dei temutissimi Fili, i pernesi, con l’ingegnosità dei loro dimenticati antenati terrestri, crearono una varietà estremamente specializzata d’una forma animale indigena del loro pianeta adottivo. Gli esseri umani provvisti di un’elevata sensibilità e di facoltà telepatiche innate vennero addestrati a utilizzare e a conservare quegli animali insoliti, la cui capacità di teleforesi aveva un valore inestimabile nella lotta frenetica, combattuta per mantenere Pern libera dei Fili.

I draghi alati, caudati ed alitanti fuoco, che prendevano il nome dei leggendari animali terrestri cui somigliavano, i loro dragonieri, che costituivano una razza a sé, e la minaccia che essi combattevano finirono per creare un’intera, nuova serie di leggende e di miti.

Non appena venne liberato dal pericolo imminente, Pern si abbandonò ad un modo di vivere più tranquillo e più comodo. I discendenti degli eroi passarono di moda, mentre alle leggende non credeva quasi più nessuno.

I

LA CERCA DEL WEYR

Tu batti, tamburino; tu soffia, pifferaio; tu suona, arpista; e tu, soldato, va’. Si scateni la fiamma, ardan tutte le erbe finché la Stella Rossa passerà.

Lessa si svegliò, raggelata. L’agghiacciava qualcosa di più del freddo che emanava dalle mura di pietra perpetuamente viscide d’umidità. Era il gelo della precognizione di un pericolo ancora più grave di quello di dieci Giri completi prima, che pure l’aveva spinta a nascondersi, gemendo di terrore, nel covile fetido del wher da guardia.

Irrigidita nella concentrazione, Lessa rimase distesa sulla paglia del puzzolente magazzino dei formaggi, dove dormiva insieme alle altre sguattere. In quel presagio malaugurante vi era un’immediatezza incalzante, diversa da qualunque altro presentimento. Lessa sfiorò la consapevolezza del wher da guardia, che strisciava in cerchio nel cortile. Girava al limite estremo della catena, fin quasi a soffocarsi. Era irrequieto: tuttavia non sembrava aver notato qualcosa di insolito nelle tenebre che precedevano l’alba.

Lessa si raggomitolò su se stessa, tesa, cercando di alleviare la tensione delle spalle. Poi si costrinse a rilassarsi, muscolo dopo muscolo, giuntura dopo giuntura, e cercò di comprendere quale potesse essere la minaccia impalpabile che aveva potuto svegliarla, senza tuttavia allarmare il sensibilissimo wher da guardia.

Indubbiamente, il pericolo non si trovava all’interno delle mura della Fortezza di Ruatha. E neppure si stava avvicinando al perimetro selciato, all’esterno della Fortezza, dove l’erba implacabile si era insinuata tra l’antica calce, verde testimonianza della decadenza della Fortezza, un tempo di sasso polito. Il pericolo non stava avanzando lungo il camminamento, ormai pochissimo usato, che saliva dalla valle, e non era neanche in agguato nelle dimore in pietra degli artigiani ai piedi del precipizio. Il suo odore non contaminava il vento che soffiava dalle fredde spiagge di Tillek. Eppure faceva vibrare acutamente i suoi sensi, scuoteva ogni nervo della sua snella figura. Ormai completamente sveglia, Lessa cercò di identificarlo prima che la precognizione si dileguasse. Si protese all’esterno, verso il Passo, più lontano di quanto si fosse mai spinta. Quale che fosse la minaccia, non si trovava a Ruatha… per ora. E non aveva neppure un sentore conosciuto. Quindi non si trattava di Fax.

Lessa aveva provato una cauta soddisfazione nel constatare che ormai Fax non si faceva vedere a Forte Ruath da tre Giri completi. L’apatia degli artigiani, gli edifici in rovina, persino le pietre del Forte, orlate d’erba verde, facevano infuriare Fax, autoproclamatosi Signore delle Terre Alte, al punto che egli preferiva dimenticare la ragione che lo aveva spinto a soggiogare quella Fortezza, un tempo così fiera e prosperosa.

Spinta dall’impulso invincibile di identificare quella minaccia opprimente, Lessa cercò a tentoni i sandali, tra la paglia. Si alzò, scuotendosi meccanicamente i fili di paglia dai capelli opachi che si annodò sulla nuca, in fretta, in una rozza crocchia.

Avanzò tra le sguattere addormentate, che giacevano ammucchiate insieme per riscaldarsi, e salì silenziosamente la scala consunta che portava alla cucina. Il cuoco e il suo aiutante erano distesi sul lungo tavolo, davanti al grande camino, volgendo le ampie spalle al calore del fuoco coperto, e russavano in toni discordi. Lessa attraversò furtiva la cucina simile a una caverna, si diresse alla porta che dava sul cortile delle stalle. Schiuse l’uscio appena quanto bastava per far passare il suo corpo snello. I ciottoli trasmisero una sensazione di freddo attraverso le suole sottile dei sandali; rabbrividì, quando l’aria notturna si insinuò nei suoi indumenti rattoppati.

Il wher da guardia strisciò attraverso il cortile, verso di lei, supplicandola, come sempre, di liberarlo. Mentre la bestia si adattava al suo passo, lei accarezzò teneramente le grinze delle orecchie appuntite. Abbassò con dolcezza lo sguardo verso quella testa spaventosa, e gli promise una bella grattata. Il wher si acquattò gemendo, trattenuto dalla catena, mentre Lessa proseguiva, diretta verso i gradini corrosi che portavano al bastione sovrastante la porta massiccia della Fortezza. Giunta sulla torre, guardò verso oriente, dove i rialzi rocciosi del Passo spiccavano, in un rilievo nero, contro i primi bagliori del giorno.