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— Be’, questo verme non aveva ali fino a quando non ho cercato di prenderlo. Sembrava un normalissimo lombrico. Maledizione, era un normale lombrico fino a quando non mi sono mosso per tirarlo su. E allora aveva una… una… oh, lasciamo perdere. Probabilmente avevo io le traveggole.

— Su, vuota il sacco. Dài.

— Maledizione, Pete, aveva un’aureola!

La macchina ebbe uno scarto, e Pete la riportò con cautela nel mezzo della strada prima di dire: — Una che?

— Be’, — disse Charlie, sulla difensiva, — sembrava un’aureola. Era un cerchietto dorato proprio sopra la sua testa. Non pareva che fosse attaccato, il cerchietto; se ne stava là, sospeso.

— E tu come lo sai che era la sua testa? Un verme non sembra uguale, o quasi, da tutte e due le parti?

— Be’, — disse Charlie, e s’interruppe per considerare la questione. Come l’aveva capito, lui? — Be’, — disse, — dal momento che si trattava di un’aureola, non sarebbe stato piuttosto stupido, quello, ad avere un’aureola dalla parte sbagliata? Voglio dire, ancora più stupido che ad averla. Al diavolo, capisci che cosa voglio dire.

— Uhm, — fece Pete. Poi, dopo che la macchina ebbe superato una curva: — Benissimo, cerchiamo di essere rigorosamente logici. Ammettiamo, per ipotesi, che tu abbia visto, o creduto di aver visto, ciò che tu… uhm… hai creduto di aver visto. Ora, tu non sei un ubriacone; quindi, non si trattava di delirium tremens. Come la vedo io, ciò non lascia che tre possibilità.

Charlie disse: — Di possibilità ne vedo due, io. Potrebbe essere stata un’allucinazione, pura e semplice. La gente ne ha, immagino. Quanto a me, mai avute prima, neanche una. Oppure, potrebbe essere stato un sogno, suppongo. Suppongo (ma sono sicuro di non averlo fatto) che sarei potuto andare a dormire là fuori e che mi sarei potuto sognare di vederlo. Il che non è, però. Voglio ammettere la possibilità di un’allucinazione, ma non di un sogno. Qual è la terza?

— Un fatto del tutto normale: che, cioè, tu abbia veramente visto un verme con le ali; voglio dire, che può esistere una cosa del genere per quel che ne so io. Tu dapprima ti sei sbagliato credendo che non avesse le ali, perché le ali erano piegate. E quella che tu hai preso per un’aureola era solo una specie di cresta o di antenna o simili. Ci sono degli insetti maledettamente buffi.

— Già, — disse Charlie. Ma non lo credeva: ci possono essere degli insetti buffi, ma non un insetto che d’improvviso mette su ali e aureola e s’innalza verso…

Prese un’altra sorsata di whisky.

II

Il pomeriggio e la sera della domenica li passò con Jane, e l’episodio del verme in ascensione scivolò in un recesso della sua mente. Qualsiasi cosa — tranne Jane — aveva la tendenza a finire lì quando Charlie era con lei.

All’ora di andare a dormire, quando fu di nuovo solo, riaffiorò — il pensiero, non il verme — in maniera tanto perentoria da non lasciarlo dormire. Così, si alzò e si sedette nella poltroncina vicino alla finestra: aveva deciso che l’unico modo per togliersi quella storia dalla mente era di considerarla in ogni sua parte. Se fosse arrivato a fare il punto della situazione e a decidere che cosa era realmente successo là fuori, sul bordo dell’aiuola, allora, forse, sarebbe riuscito a dimenticarsene completamente.

D’accordo, si disse, cerchiamo di essere rigorosamente logici.

Aveva ragione, Pete, a proposito delle tre possibilità: allucinazione, sogno, realtà. Ora, tanto per cominciare, non si era trattato di un sogno. Era ben sveglio, lui. Se c’era una cosa di cui era sicuro era proprio questa. Possibilità da eliminare, dunque.

Realtà? Anche questa ipotesi era inammissibile. Faceva presto Pete a parlare della stranezza degli insetti e della possibilità di antenne e simili… Pete non l’aveva visto, quel maledetto coso. Quel coso che aveva volteggiato a pochi centimetri dai suoi occhi. E in quanto all’aureola, c’era… c’era davvero.

Antenne? Sciocchezze.

Così non rimaneva che l’allucinazione. Ecco quello che doveva essere stato: un’allucinazione. Dopo tutto la gente ne ha, di allucinazioni. E, a meno che non succeda spesso, ciò non significa necessariamente che tu sia candidato al manicomio. Benissimo, allora: ammesso che sia stato un’allucinazione, e con ciò? E con ciò, dimenticatene.

Giunto a questa decisione, Charlie se ne andò a letto e — col pensiero rivolto di nuovo a Jane — dormì beatamente.

La mattina dopo era lunedì e tornò a lavorare.

L’altra mattina ancora era martedì.

E martedì.

III

Non si trattava di un lombrico in ascensione, questa volta. Non era cosa che si potesse toccare con mano, a meno che non si voglia toccare una scottatura di sole; il che è doloroso, a volte.

Ma una scottatura di sole — durante un temporale…

Pioveva, quella mattina, quando Charlie Wills uscì di casa; non forte a quell’ora — erano le otto e qualche minuto — una semplice pioggerella. Charlie abbassò la tesa del cappello, abbottonò l’impermeabile e decise di andarsene comunque in ufficio a piedi. Gli piaceva molto camminare sotto la pioggia. E ne aveva tutto il tempo: non doveva essere al lavoro che alle otto e mezza.

Tre isolati prima dell’ufficio, incontrò la “Peste”, che aveva la sua stessa destinazione. La “Peste” era la sorella minore di Jane Pemberton; il suo vero nome era Paula, ma la maggior parte della gente se ne era dimenticata. Lavorava, proprio come Charlie, alla Società Tipografica Hapworth; soltanto che lei era l’aiuto di uno dei correttori di bozze, mentre lui era vicedirettore di produzione.

Era stato per suo tramite che Charlie aveva conosciuto Jane a un ricevimento dato per i dipendenti.

— Ehi, tu, Peste. Non hai paura di scioglierti? — Adesso, infatti, stava piovendo più forte, decisamente più forte.

— Ciao, Charlie-warlie[1]. Mi piace camminare sotto la pioggia.

L’avrebbe fatto, pensò Charlie con amarezza. All’odiato soprannome di Charlie-warlie si sentiva fremere. Jane lo aveva chiamato così una volta, ma — dopo che lui l’aveva indotta a ragionarci su — non l’aveva più fatto. Jane era una persona ragionevole. Ma la Peste lo aveva sentito… e Charlie aveva una tremenda paura, da allora, che lei lo chiamasse così in ufficio, e che altri impiegati potessero udirla. Se mai fosse successo…

— Senti, — protestò, — non potresti dimenticarti quel maledetto stupido soprannome? Smetterò di chiamarti “Peste” se tu la smetti di chiamarmi — uhm — in quel modo.

— Ma a me piace essere chiamata Peste. Perché, non ti piace essere chiamato Charlie-warlie?

Gli fece un sorrisetto e Charlie fremette dentro di sé. Dal momento che lei era chi era, non osava…

C’era rabbia repressa in lui mentre camminava sotto la pioggia scrosciante, a testa bassa per non prendersi l’acqua in faccia. Accidenti a quella mocciosa…

Con la visione limitata ai pochi metri di marciapiede davanti a sé, probabilmente Charlie non avrebbe visto il carrettiere e il cavallo se non avesse sentito gli schiocchi della frusta che risuonavano come colpi di pistola.

Alzò gli occhi e vide. Nel centro della strada, a circa un metro e mezzo di distanza, muovendosi verso Charlie e la Peste, avanzava un carro sovraccarico. Lo tirava un vecchio cavallo stremato, tanto vecchio e ossuto che la lenta andatura con cui procedeva sembrava essere il più alto grado di velocità cui l’animale potesse arrivare.

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Pasticcione, casinista. (N.d.T.)